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Canto delle sirene - Faial, Açores
Ultimo aggiornamento 03 Giugno 2014 Scritto da Fabio MTBexplorer
Il canto delle sirene può essere fatale ma non ascoltarlo è da pavidi, quando si è davvero in viaggio.
Il gin del Peter’s bar può costituire un buon carburante per affrontare una camminata fino al molo. È un molo lungo lungo, che s’infila nell’oceano. Sulla calce, per alcune centinaia di metri, ci sono i murales dipinti dai navigatori solitari con le vernici delle barche. Ciascuno è un quadro che ha per cornice l’azzurro dell’atlantico: emblemi, paesaggi, volti, barche nomi. Forse è il caso di sedersi su una panchina è guardare quelle pitture. Anche se non vi dicono niente, anche se non le capite, quelle immagini meritano di essere guardate: sono come messaggi che invece di vagare in una bottiglia sono stati affidati a un muro delimitato dell’atlantico. E il loro significato profondo, al di là dell’immagine dipinta, consiste nel fatto che voi le raccogliete con i vostri occhi. Chi le dipinse “voleva” che qualcuno le guardasse. Passando di qui, lui volle far sapere che esisteva, e lasciò una testimonianza del suo passaggio. Voi raccogliete la testimonianza: diventate voi stessi testimoni del suo passaggio. Che poi non sappiate chi fosse, e che lui non sappia chi siete voi, è del tutto secondario.
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Spesso, ingenuamente, scattiamo le fotografie nell’illusione di portare via qualche cosa. Ma le immagini sono solo la pelle, pura apparenza: ciò che quel luogo provoca in noi nel guardarlo e viverlo non è fotografabile. Succede la stessa cosa con i sogni. Spinti dal desiderio di comunicare l’emozione provata nel sogno, lo raccontiamo a qualcuno, e quasi con meraviglia ci accorgiamo che la storia di quel sogno era banale, era un sogno come un altro: così, a raccontarlo, non comunica nessuna emozione, né in chi vi ascolta né a voi stessi che lo raccontate. Che cosa aveva dunque di così speciale per averci provocato tanta emozione? Niente. L’importante di quel sogno non è quel che succedeva, ma il modo in cui stavamo vivendo quel qualcosa: il sogno era la nostra stessa emozione. Per un luogo è lo stesso. Raccontarlo non significa descriverlo, ma riuscire a dire, anche in minima parte le emozioni che vi ha suscitato.
Un luogo non è mai solo “quel” luogo: quel luogo siamo un po’ anche noi. In qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un giorno, per caso, ci siamo arrivati. Ci siamo arrivati il giorno giusto o il giorno sbagliato, a seconda, ma questo non è responsabilità del luogo, dipende da noi. Dipende da come leggiamo quel luogo, dalla nostra disponibilità ad accoglierlo dentro gli occhi e dentro l’animo, se siamo allegri o malinconici, euforici o disforici, giovani o vecchi, se ci sentiamo bene o se abbiamo mal di pancia. Dipende da chi siamo nel momento in cui arriviamo in quel luogo. Queste cose s’imparano con il tempo, e soprattutto viaggiando.
… perché posare i piedi sul medesimo suolo per tutta la vita può provocare un pericoloso equivoco, farci credere che quella terra ci appartenga, come se essa non fosse in prestito, come tutto è in prestito nella vita. Costantino Kavafis lo ha detto in una straordinaria poesia intitolata Itaca: il viaggio trova senso solo in se stesso, nell’essere viaggio. E questo è un grande insegnamento se ne sappiamo cogliere il vero significato: è come la nostra esistenza, il cui senso principale è quello di essere vissuta.
- Liberamente tratto e ispirato da Antonio Tabucchi "Viaggi e altri viaggi"